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Dalla conversazione con Andrea Inglese, autore della collana Autoriale della Dot.com Press

Dalla conversazione con Andrea Inglese: un brano dell’autoantologia uscita presso la collana Autoriale, diretta da me presso la Dot.com Press:

B. C.
La tua figura di poeta, a differenza di molti oggi, e similmente invece alla tradizione novecentesca, comprende in maniera intensa anche la funzione intellettuale. Sui blog Nazione indiana (dal 2003 uno dei primi in Italia) e Alfabeta 2 (riedizione on line di quella gloriosa degli anni ’80) ti occupi di argomenti anche non letterari affermando un tipo di intelligenza etica che non si sottrae al circostante, alla storia. A cosa riconduci nel tuo caso questo profilo così poco diffuso, purtroppo? E secondo te perché è, se davvero lo è, così poco diffuso?
A. I.
Da molto giovane, intellettuali come Orwell, Camus, Sartre, Enzensberger, o i nostri Sciascia, Pasolini, Fortini, Roversi hanno rappresentato per me figure
eroiche, e io a lungo sono stato abitato da fantasmi di eroismo intellettuale. Ancora adesso lo sono, quando leggo certi saggi di Hannah Arendt, Ivan Illich, Cornelius Castoriadis o Günter Anders. E venero come una delle più alte qualità umane la lucidità intellettuale, che per me è inseparabile da un’attitudine critica nei confronti della società e delle sue istituzioni. Ciò viene anche dalla mia particolare formazione universitaria. Io mi sono laureato in filosofia con Carlo Sini, e ho proseguito fino alla tesi di dottorato, avendo come direttore di ricerca Vincent Descombes, uno dei più importanti filosofi francesi contemporanei. Quindi ho sì coltivato (e coltivo malgrado tutto) degli ideali di grandezza intellettuale, ma nello stesso tempo mi sono dotato, nel corso degli anni, di qualche strumento per esercitare quella lucidità intellettuale che tanto mi affascina. A questo si deve aggiungere una furiosa e impertinente volontà di capire, da un lato, i meccanismi “duri” che regolano la realtà sociale, e di prendere, dall’altro, la parola a fronte di discorsi confusi o riduttivi o mistificatori che quei meccanismi contribuiscono a celare. Tutto ciò si è tradotto abbastanza presto in una scrittura d’intervento, legata
all’attualità politica o più in generale al sistema culturale, una scrittura che oscilla, nel taglio e nella lunghezza, dall’articolo giornalistico al vero e proprio saggio. Devo subito precisare, però, che questo tipo d’interventi li ho sempre portati a termine spinto quasi da un dovere, da una sorta di super-io tirannico, malgrado sentissi, in questo contesto, molto più palese la mia inadeguatezza, i miei limiti conoscitivi e di comprensione, rispetto a quanto mi accade nella scrittura poetica e narrativa. Nello stesso tempo questa palestra di scrittura diciamo “impegnata” è stata per me sacrosanta.
A differenza di quanto accade in poesia o nella finzione, dove – al di là di vuote retoriche – le parole spesso non pesano niente, e al massimo produrranno qualcosa di brutto, banale o inutile, nella scrittura critica sulla “realtà” le parole hanno un peso tremendo, hanno il peso della verifica collettiva, in quanto possono essere contestate immediatamente e da tutti, in base a contro-prove e contro-argomentazioni. Se uno scrive una brutta poesia o un brutto racconto, suscita scherno o indifferenza, ma mai una sorta di contro-poesia e contro-racconto, che si ponga come refutazione di quanto è stato inizialmente scritto. Banalmente, ci vuole una certa dose di fegato o d’incoscienza, per affrontare questo tipo di scrittura “referenziale”. Di scrittori, che condividono questa medesima passione ne ho conosciuti in realtà diversi in Italia, ma anche perché me li sono andati a cercare, o sono venuti loro a cercarmi, come è accaduto con “Baldus”, in cui mi hai fatto entrare tu, con “Nazione Indiana”, in cui mi fece entrare Antonio Moresco, con “Qui. Appunti dal presente”, la rivista diretta da Massimo Parizzi, e più recentemente con “Alfabeta2”, nel cui comitato di redazione sono stato cooptato da Nanni Balestrini. È vero, però, che un buon numero di poeti ritiene “fuori luogo” che un autore si esprima su questioni che non lo riguardano in modo specifico. Questi simpaticoni vorrebbero convincerci che uno scrittore ha veramente diritto di prendere la parola solo per parlare della sparizione dei congiuntivi, degli abusi linguistici realizzati dalla pubblicità o dal tasso di parole straniere diffuse nella nostra lingua patria, dal momento che il poeta dovrebbe essere la vestale del lessico e della grammatica. Un tale atteggiamento è in realtà un adeguamento servile degli intelletti alle ragioni della divisione del lavoro e della specializzazione, che il sistema capitalistico ritiene capisaldi inevitabili per il buon funzionamento dei saperi.